Suona la sveglia. Le 4:15. Ti alzi. Ti lavi. Un caffè e poi via. Entri in macchina. Ti aspettano circa 65 km prima di arrivare in fabbrica. Tutti i giorni la stessa strada. Tutti i giorni sembrano uguali.
Entri in fabbrica. Inizia il turno. Si inizia a lavorare. Intorno a te vedi tante facce nuove. Giovani e meno giovani. Interinali. Intorno a te vedi tanti occhi pieni di speranza. Una speranza che durerà fino al sabato. Una speranza a termine. Con la domenica passata in attesa del rinnovo del contratto. Per poter continuare a sperare un’altra settimana.
Intorno a te vedi tante facce nuove, e tante facce già conosciute. Tutte immerse nella stessa nube di polveri. Polveri che per cinque o sei giorni alla settimana vengono respirate per 8 ore ogni giorno. E vedi gente tossire. E vedi gente fare fatica. Tu stesso fai fatica a camminare perché hai il ginocchio gonfio. Residui di un vecchio infortunio sul lavoro. E fai fatica anche muovere i polsi. Il lavoro è usurante. Sempre gli stessi movimenti. Una cicatrice profonda sul braccio ti ricorda che questo lavoro nobilita, ma ti segna anche nel profondo. E poco importa se tossisci, se zoppichi e se fai una fatica del diavolo a farti i tuoi 65 km in macchina con i polsi gonfi. Bisogna andare a lavorare.
Bisogna andare a lavorare. Non ti puoi permettere di assentarti, a meno che non riesci proprio ad alzarti dal letto. Già. Perché se fai 3 (tre!!) giorni di assenza in tutto l’anno (!) perdi il premio di produzione. Cioè, se viene raggiunto un obiettivo produttivo, ogni lavoratore ha diritto ad un premio di produzione. Se l’è meritato. Però se fai tre giorni di assenza perdi questo diritto. In tre giorni ormai non si fa nemmeno in tempo ad andare in farmacia a comprare agli antibiotici. E poco importa se hai lavorato i restanti 362 giorni. E poco importa se il premio di produzione è stato ridotto da 1100 € a 250 € all’anno. Perché, anche se questa riduzione è un insulto al tuo lavoro, quei 250 € significano il pagamento di una bolletta.
È un lavoro usurante. Ti comunicano però che molto probabilmente si passerà dai 15 ai 18 turni di lavoro settimanali. Cioè si lavorerà 6 giorni alla settimana. E ti vengono in mente le battaglie sindacali del 2004. Quelle che hanno portato proprio ai 15 turni settimanali. Quelle che per fortuna erano riuscite a ridurre il carico di lavoro. E ti chiedi, a parte la Fiom che è sempre al fianco dei lavoratori, ti chiedi dove sono gli altri. Ti chiedi dov’è la sinistra. Ti chiedi dov’è chi ti dovrebbe tutelare. Dov’è chi ti dovrebbe difendere. Difendere da chi crede che il problema del lavoro siano i lavoratori che da sempre pagano le tasse. Da chi crede che il problema delle aziende siano i 40 minuti di pausa e li riduce a 30, solo per poterti sfruttare 10 minuti in più. Da chi crede che il problema è l’articolo 18. Da chi prende un stipendio che è pari a quello percepito da 6400 operai.
E poi lo capisci, dov’è chi ti dovrebbe difendere. E lo capisci il giorno dello sciopero generale. O meglio, lo capisci il giorno dopo. Il 12 Dicembre, scioperi. È un tuo diritto. È l’unico modo per denunciare le condizioni in cui lavori. E ti accorgi che mancano alcuni rappresentanti sindacali. Che fino al giorno prima erano più comunisti di Che Guevara. Il giorno dopo torni a lavoro con questo dubbio nella testa. Poi trovi un giovane accanto alla tua postazione. Lo saluti. Gli chiedi come si chiama. E ti accorgi che quel nome l’hai già sentito. Ha lo stesso cognome di…… E capisci. Capisci perché il padre il 12 Dicembre non c’era.
È ora di tornare a casa. Ti aspettano i 65 km di ritorno. Ci metti un po’ ad arrivare alla macchina. Il ginocchio non ti dà pace. Fra un po’ è Natale. E pensi, con quella tenacia che non smette mai di farti lottare: ‘Proletari di tutto il mondo uniamoci!’ E Buon Natale a noi.
Questo articolo non l’ho scritto ‘per sentito dire’. Non l’ho scritto sulla base di populismi. Questo articolo si intitola ‘Storia di un operaio’. Si. Perché è la storia di mio padre.