Quando ci troviamo di fronte a uno scandalo mediatico di larga portata, la reazione ha un funzionamento più o meno standardizzato: qualcuno con una certa “influenza” fa da traino, poi c’è una prima fase di condanna-dissociazione in cui la polarizzazione del dibattito è netta e diretta. Inferno o paradiso. Nel frattempo, all’interno dell’opinione pubblica, nasce una discussione che, per essere tale, necessita di più punti di vista e, in particolare, di opinion makers “influenti”, quelli di cui ci possiamo fidare. Il periodo di indignazione varia, ma poi passa quasi indolore. Pensate a quanto successo con lo scandalo di Mafia Capitale. A questo punto, dopo che l’argomento è decantato (è questione di pochi giorni), è il momento giusto per provare a darne una lettura critica.
Lo scandalo SwissLeaks, scoppiato una settimana fa in seguito alla pubblicazione integrale della lista Falciani da parte dell’ICIJ, rientra a pieno in questa casistica. Sulle prime pagine di tutti i quotidiani e riviste internazionali, sembra già essere finito nel dimenticatoio. Eppure, al netto di ogni speculazione o illazione più o meno sensata, la vicenda del tecnico informatico italo-francese, ha una doppia valenza. C’è, da una parte, la questione personale di un uomo che all’epoca dei fatti, dopo essersi laureato nel prestigioso technology park Sophia Antipolis, aveva trentaquattro anni, era sposato e lavorava da sei come ingegnere informatico presso la filiale ginevrina di HSBC. Riassumendo: formazione di alto livello, incarico di prestigio, stipendio congruo, carriera in ascesa e vita familiare. L’identikit, insomma, del perfetto uomo moderno. Malgrado ciò, la crescente consapevolezza della «sistematica violazione di diritti fondamentali dei cittadini» connaturata nella prassi di HSBC, e la costante «sottrazione di fondi che avrebbero dovuto essere destinati ad interessi comuni», non l’hanno lasciato indifferente.
Invece di approfittare della situazione a proprio favore, Falciani ha scelto di non girare la testa dall’altra parte e ha trovato la forza di denunciare un sistema corrotto e classista che si nascondeva dietro il segreto bancario. «Non sono pazzo e sapevo perfettamente che non avrei cambiato il mondo. Credevo però di poter avviare una trasformazione che, allargandosi, avrebbe potuto sortire effetti positivi», prosegue l’ex dipendente del maggior istituto di credito europeo. Purtroppo, si sbagliava. Qui la sua vicenda personale sconfina in questione meramente politica. L’altro lato della medaglia, infatti, è quello riguardante quella moltitudine di leggi e cavilli burocratici che consentono certe pratiche, le favoriscono e le proteggono.
Naturalmente, avere un contro in HSBC non significa automaticamente essere evasori. Tra i correntisti c’è chi lavora onestamente in Svizzera, chi ha dichiarato tutto, chi vive all’estero e paga le tasse in altri Paesi. C’è chi figura come rappresentante di società o fondazioni con bilanci regolari e trasparenti. E poi ci sono gli evasori, quelli che hanno nascosto soldi in Svizzera senza dire niente al fisco del proprio Paese. Prendiamo il caso italiano. Guardando tra i nomi più noti, si ha subito uno spaccato emblematico: Valentino Rossi, Flavio Briatore, Valentino Garavani, Stefania Sandrelli, Renato Mannheimer, Ornella Vanoni: sono sempre gli stessi. D’altronde, i milioni all’estero li porta chi i milioni li ha.
Il quadro si fa ancora più raccapricciante se si considera che le autorità erano a conoscenza dell’esistenza della lista già da inizio 2009. Il 30 agosto dello stesso anno, tuttavia, il governo Berlusconi converte in legge con tempismo di razza un decreto datato primo luglio: lo scudo fiscale. Ne usufruiscono, tra gli altri, Roberto Cavalli, l’ex rettore della Bocconi Luigi Guatri, il finanziere e presidente di I Grandi Viaggi Luigi Maria Clementi, l’avvocato d’affari Alfredo Ledda, l’ex direttore dell’Autodromo di Monza Enrico Ferrari, senza contare i casi di archiviazione come quello di Nicolò Cardi, gallerista milanese e socio di Barbara Berlusconi; che sanano l’evasione senza pagare alcuna sanzione e versando una quota fissa del 5 per cento, a fronte di una tassazione media sui patrimoni di circa 30 punti percentuali.
La GdF, che stava esaminando oltre 5000 nominativi di clienti HSBC presenti nell’elenco, non può nulla contro 1264 di loro. Nelle casse dello Stato entrano così poco più di 30 milioni, invece che 700. Dello scudo non favoriscono solo clienti della HSBC: in totale ne usufruiscono 179.557 italiani, che legalizzano capitali non dichiarati per più di 104 miliardi di euro. Ciò deve far ragionare. D’altra parte, un governo guidato da un uomo sotto processo per una frode fiscale da 368 milioni di dollari, organizzata con una rete di conti esteri mai dichiarati, cos’altro poteva fare? Il fatto è che queste ricchezze non sono sfuggite al fisco per accasarsi altrove senza che nessuno se ne accorgesse. Il capitalismo si nutre di finanza offshore, senza di essa non potrebbe gestire risorse illimitate con così tanta facilità.
I 202 clienti delle Bahamas presenti nella lista Falciani disponevano, nel 2008, di oltre 7 miliardi di dollari: poco meno dell’importo accumulato da 7499 italiani. Con l’industria dell’offshore le istanze finanziarie tengono in ostaggio le istituzioni democratiche e fanno sì che la maggior parte delle persone non abbia alcun potere di contrattazione sociale. L’opacità finanziaria è la condicio sine qua non del modo di produrre ed esistere attuale. Permette di allargare il divario della diseguaglianza e, soprattutto, consente a una larga parte di quelli che guadagnano di più di pagare tasse irrisorie, o di non pagarle affatto, mentre chi guadagna poco o nulla deve continuamente versare contributi per mantenere e sostentare servizi di ogni tipo, di cui poi fanno uso anche gli evasori. Detto ciò, di che cosa parliamo quando parliamo di SwissLeaks? Purtroppo, del nulla.