Qualcuno era socialdemocratico perché credeva che in fondo il capitalismo potesse avere un volto umano. Qualcuno lo è diventato più tardi, perché dopo la caduta del Muro era meglio mandare in soffitta Marx, le falci e i martelli. In buona fede o per opportunismo, da venticinque anni la sinistra si è spostata su posizioni sempre più moderate. Poi è diventata centro-sinistra e infine ha eliminato anche il trattino. Ma nel frattempo ha smarrito se stessa. Adesso sembra che nell’intera Europa sia in atto una trasformazione dello scenario politico. Avanzano le destre populiste ed euroscettiche, la sinistra radicale si riorganizza (soprattutto nel Mediterraneo: speriamo sia un buon auspicio per l’Italia) e si cementa un vasto centro moderato. Un forte tripolarismo in cui a fare la figura del perdente è il Partito del Socialismo Europeo. Mai come oggi la socialdemocrazia è sembrata priva di idee e spessore.
Come sono tristi Renzi e Hollande, ridotti a fare da stampelle al Brussels Group e ai poteri forti dell’economia! Mentre Tsipras dimostra che lottare contro il liberismo vuol dire riaffermare l’importanza della sovranità popolare, democratici e socialisti di tutta Europa continuano ancora con i proclami e la finta indignazione contro le cattiverie dei democristiani tedeschi. Insomma, da una parte c’è la sinistra di piazza Syntagma e dall’altra quella del Parco Nord di Bologna, teatro della riunione dei rampolli della famiglia Pse nello scorso settembre. Quella fotografia scattata alla Festa dell’Unità (a cui si potrebbe benissimo cambiare nome, per rispetto verso la storia del Pci) esprime perfettamente la condizione del centrosinistra: un’idea ingessata dentro un abito che vuole essere anticonformista ma non troppo, cercando di darsi una nuova immagine giovane e brillante per reagire alla sua crisi. Come quei vecchi divi dello spettacolo che per tornare alla ribalta si trasformano nella parodia di se stessi. Triste, in primis per la loro storia. Tra Bernstein e Schulz c’è di mezzo un abisso, così come tra Adenauer e la Merkel.
Ma perché tanta desolazione nel cimitero dei progressisti? Una spiegazione potrebbe essere semplice. La risposta del socialismo europeo ai problemi dell’economia è stata sempre quella keynesiana: previdenza sociale, economia mista pubblico-privato e investimenti statali. La crisi degli anni ’70 si è però risolta con una vittoria “di rapina” del neoliberismo. Ai tagli alla spesa pubblica, alle privatizzazioni e alle politiche anti-sindacali non c’è stata una vera risposta. La fantomatica terza via liberalsocialista è un paravento che ha portato al definitivo smantellamento della socialdemocrazia. Allora oggi di fronte all’impero finanziario del capitalismo si resta sconcertati. E si capisce benissimo che non si può sperare di rimanere nel limbo di una tiepida illusione durata molto a lungo: quella di voler conservare i rapporti di produzione gerarchici e la logica del profitto, garantendo però una protezione a coloro che vengono soffocati da questo sistema. Un po’ come se un genitore, di fronte ad un figlio forte che picchia l’altro debole, non impedisse al primo di sopraffare il secondo ma si limitasse ad incerottare quest’ultimo.
Bene, il risveglio dal sogno minimalista è stato durissimo e ci rende coscienti di dover percorrere sentieri inesplorati. L’applicazione piena dei principi democratici alla gestione delle imprese è la chiave per mutare i rapporti di forza in economia, mentre il futuro del welfare risiede nella sussidiarietà circolare, un sistema di collaborazione tra stato, imprese non capitalistiche (no profit e cooperative, ad esempio) e terzo settore. Insomma, questa vecchia e logora locomotiva socialista è arrivata ad un bivio: o svolta a sinistra con il popolo o va a destra con il capitale. L’alternativa è far saltare in aria tutto. Tuttavia alla guida della macchina a vapore non c’è l’anarchico Rigosi di cui canta Guccini, ma le camicie bianche che ammiccano a Juncker e sembrano aver fatto la scelta tragica da tempo. Che abbiano almeno la dignità di palesarla, se non hanno il coraggio di lottare al fianco degli ultimi.