#BastaunSi? #MaAncheNO – A proposito del metodo

Prima di addentrarci nell’analisi del merito della riforma costituzionale, non si può fare a meno di passare in rassegna alcune questioni preliminari di grande rilevanza politica e istituzionale. Ci si riferisce in particolare al contesto politico in cui è stata discussa e approvata la riforma e alle tappe parlamentari che questa ha percorso.

Com’è nata questa riforma? L’iniziativa legislativa è stata promossa dal Governo, tanto che il ddl costituzionale porta le firme del Presidente del Consiglio Renzi e della Ministra per le riforme costituzionali Boschi. Dunque, il primo dato che serve tenere presente è che l’Esecutivo ha voluto mettere direttamente la faccia e la propria impronta su una materia di tipica competenza parlamentare. Se da una parte ciò non costituisce una illegittimità vera e propria, non si può certo negare che si tratti di una forzatura, di uno “sgarbo istituzionale”: sottrarre il procedimento di revisione costituzionale – che si pone ad un livello decisamente superiore a quello della contingenza politica – all’indirizzo politico della maggioranza di turno avrebbe consentito un maggiore e reale coinvolgimento delle opposizioni, permettendo a tutte le forze presenti in Parlamento di avere una adeguata voce in capitolo nella (ri)scrittura delle supreme regole dell’organizzazione istituzionale della Repubblica, che stanno alla base della convivenza civile e politica del nostro Paese. Come scriveva il noto giurista e padre costituente Piero Calamandrei nel 1947, «nella preparazione della Costituzione, il governo non ha alcuna ingerenza […], nel campo del potere costituente non può avere alcuna iniziativa, neanche preparatoria. Quando l’assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti; estraneo del pari deve rimanere il governo alla formulazione del progetto, se si vuole che questo scaturisca interamente dalla libera determinazione dell’assemblea sovrana». Invece, oltre a intestarsi l’intera riforma, l’attuale Governo non si è sottratto dall’interferire costantemente sui tempi di discussione e approvazione.

Durante l’intero corso dei lavori parlamentari, infatti, si è sono verificate una serie anomalie procedurali che hanno condizionato radicalmente il suo iter di approvazione. Ne passiamo rapidamente in rassegna alcune particolarmente significative. Nel luglio 2014 sono stati sostituiti alcuni componenti della commissione Affari costituzionali del Senato, incaricata di istruire la riforma: i senatori Mineo e Mauro, che avevano preannunciato il proprio voto contrario invocando il rispetto della libertà di coscienza sulle questioni costituzionali, sono stati rimossi d’autorità per essere rimpiazzati da colleghi espressamente favorevoli alla riforma. Una seconda, avvenuta ad ottobre 2015, che ha fatto notizia è stata l’approvazione di un emendamento molto discusso – il cosiddetto “canguro” – che ha impedito la votazione di cospicuo numero di votazioni segrete, su cui una maggioranza così raccogliticcia e frammentata avrebbe potuto trovarsi in difficoltà.

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Al di là di questi ed altri stratagemmi, si tengano presenti le generali dinamiche e le modalità politiche con cui si sono svolte le sedute delle commissioni e delle aule parlamentari: in una logica di contingentamento dei tempi di discussione e votazione è stato di fatto impedito il regolare dibattito e confronto, al fine di passare il più rapidamente possibile alla conta degli schieramenti contrapposti.

Conteggio finale che ha visto prevalere in entrambe le deliberazioni di ciascuna Camera una maggioranza che, numericamente, è andata di poco oltre a quella richiesta per l’approvazione e che ha raccolto le forze politiche che sostengono il Governo (Pd, Ncd, Udc, Scelta civica) con l’aggiunta dei verdiniani di Ala, venuti in soccorso dell’Esecutivo per l’occasione ed entrati ormai stabilmente in maggioranza. Un consenso parlamentare così risicato ha soltanto due precedenti nella storia della Repubblica: la riforma del titolo V del 2001 (tanto criticata, oggi anche dallo stesso centrosinistra che la promosse) e il tentativo di riforma del 2006 targato Berlusconi-Lega (respinta con voto popolare). Non si possono dire due modelli positivi cui ispirarsi, anzitutto nel metodo utilizzato. Tutte le altre riforme andate in porto, più mirate e circoscritte, hanno invece trovato ampia condivisione in Parlamento, superiore ai 2/3, raggiunti i quali non si fa luogo a referendum confermativo/oppositivo.

Tornando all’approvazione dell’attuale riforma, si noti che l’artefatta maggioranza parlamentare è il frutto di un abnorme premio di maggioranza assegnato dalla (fu) legge elettorale – il c.d. Porcellum – e, poi, dichiarato incostituzionale dalla sentenza n. 1 del 2014 della Consulta. Quest’ultima consentì sì alle Camere di continuare a operare e a legiferare, ma solo grazie a un principio fondamentale dell’ordinamento conosciuto come “principio di continuità dello Stato”, il quale – come sostengono insigni giuristi e come esemplificato dalla Corte nella citata sentenza – dovrebbe incontrare limiti di tempo brevi e limitato ambito di agibilità. Ciò significa che quel Parlamento, delegittimato quantomeno politicamente, avrebbe dovuto limitarsi all’ordinaria amministrazione, magari all’approvazione di una nuova legge elettorale per poi tornare ad elezioni. Di certo non avrebbe dovuto occuparsi dell’attività di revisione costituzionale, cimentandosi peraltro nella modifica di ben 47 articoli della Costituzione.

Ma anche si fosse trattato di un Parlamento pienamente legittimato, da più parti si ritiene inopportuno che si proceda per “grandi riforme costituzionali”, in quanto il meccanismo di revisione di cui all’art. 138 sarebbe più propriamente volto a consentire interventi correttivi, integrativi, manutentivi del testo costituzionale. Anche in virtù del fatto che una “grande riforma”, condensata in un unico quesito referendario (salvo sorprese dell’ultima ora, a seguito dei recenti ricorsi avanzati dal presidente emerito della Corte costituzionale Onida) avente ad oggetto questioni diverse ed eterogenee, determina la coartazione della volontà dell’elettore, in violazione del principio di libertà del voto sancito dall’articolo 48 della Costituzione. Si rischia, in tal modo, di distogliere l’attenzione dal merito di ciò che deve essere deciso, piegando uno strumento di democrazia diretta ad un uso plebiscitario pro o contro il Governo e il Presidente del Consiglio.

Per quanto riguarda la data della consultazione referendaria, finché il SI era dato vincente sul NO, il premier annunciava che si sarebbe votato non oltre metà ottobre, addirittura il 2. Poi, preso atto del risultato delle amministrative, ha fissato la data al 4 dicembre per permettere a se stesso di recuperare.

Infine, sempre in tema di quesito referendario, un’ulteriore forzatura introdotta fin da principio dai promotori della riforma sta nel titolo accattivante ed ammiccante, che recita «disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione» e che troveremo sulla scheda elettorale. Seppure – secondo quanto affermato dalla Cassazione – il suo inserimento nel quesito referendario non costituisce una violazione della legge che disciplina i referendum, risulta evidente a tutti l’intenzione dei promotori di propagandare le presunte buone ragioni della riforma. Si mettono così in risalto profili demagogici che solleticano la pancia dell’elettorato, in spregio all’imparzialità di cui l’Esecutivo, nell’indizione di una consultazione popolare, dovrebbe farsi promotore e garante.

Ecco perché a partire dal metodo non si può certo essere soddisfatti dell’atteggiamento assunto dal Governo, e in particolare dal Presidente del Consiglio, che prima ha imposto un testo di riforma e poi, attraverso la Ministra Boschi, ha continuato a intervenire durante la discussione parlamentare, con evidenti forzature politiche e istituzionali. In questo caso, non si può certo dire che il testo della riforma sia frutto della «libera determinazione dell’assemblea sovrana», come sosteneva Calamandrei dovesse essere un testo costituzionale. Del resto, quale correttezza si può pretendere da un Governo che in prima persona ha messo le mani sulla Costituzione?

6 commenti su “#BastaunSi? #MaAncheNO – A proposito del metodo”

  1. Mi sembra giusto però evidenziare che una cosa è la sovranità di un”assemblea eletta dal popolo come accadeva allora ed un’altra è la sovranità di un”assemblea di nominati come accade oggi

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