“C’era una volta”. Potrebbe cominciare così questa storia. a raccontarla potrebbe essere un uomo gentile e distinto. Gli occhiali appoggiati al naso, i capelli bianchi a ricordare lo scorrere del tempo. Gli occhi azzurri ghiaccio. Si chiama Manlio Milani, presidente dell’Associazione Vittime Familiari della Strage di Piazza della Loggia.
La storia inizia 43 anni fa, con un boato. Il comizio di Franco Castrezzati, segretario generale dei metalmeccanici della Cisl, viene interrotto da un’esplosione improvvisa. “Fermi, state fermi (…) Calma compagni, state fermi!”. Sangue. Urla. Il panico sul volto delle persone che scappano dai portici di Piazza della Loggia, dove in un cestino era nascosto l’ordigno.
Siamo negli anni Settanta. In quel decennio di eversione e strategia della tensione, termine coniato dal settimanale inglese The Observer, nel dicembre 1969, all’indomani della strage di piazza Fontana. È il 28 maggio 1974, e sono da poco passate le 10. Piove a dirotto. Migliaia di lavoratori hanno manifestato per le vie della città il loro dissenso e rifiuto alle intimidazioni neofasciste avvenute nei giorni precedenti. “Non ci piegheranno, resisteremo sempre”, dicevano.
Poi, il vuoto. D’improvviso la piazza si apre. E subito si capisce tutto. I corpi martoriati a terra. Una strage. Sono otto le vittime di questo vile attacco fascista:
Luigi Pinto, 25 anni, insegnante
Alberto Trebeschi, 37 anni, insegnante
Livia Bottardi Milani, 32 anni, insegnante
Giulietta Banzi Bazoli, 34 anni, insegnante
Clementina Calzari Trebeschi, 31 anni, insegnante
Bartolomeo Talenti, 56 anni, operaio
Vittorio Zambarda, 60 anni, operaio
Euplo Natali, 69 anni, pensionato.
Poi, la vergogna. Mentre le ambulanze continuano incessantemente a trasportare i feriti, il vice questore ordina: “Ripulite la piazza!”. Una squadra di vigli del fuoco esegue l’ordine. Qualsiasi prova, indizio, reperto, traccia d’esplosivo sparisce insieme all’acqua degli idranti. Nessun rilievo e sopralluogo è stato effettuato. In ospedale spariscono tutti i reperti prelevati dai corpi delle vittime e dei feriti. Una strage senza prove. Otto morti, senza un oggetto che ne spiegasse la morte.
Quarant’anni di depistaggi costanti. Tre istruttorie. Nove gradi di giudizio. Senza colpevoli. Fino al 2014, quando la Cassazione ordina di rifare il processo a Carlo Maria Maggi (neofascista di Ordine Nuovo) e Silvio Tramonte (Informatore del Sid, nome in codice “Tritone”), che erano stati assolti per insufficienza di prove insieme al generale Francesco Delfino e ai neofascisti Pino Rauti e Delfo Zorzi il 14 aprile 2012.
Poi, la giustizia. Quaranta tre anni dopo. Una sentenza storica. Ergastolo per Silvio Tramonte e l’ottantaduenne Carlo Maria Maggi, ai domiciliari in gravi condizioni di salute. “Tritone” invece, è dichiarato irrintracciabile dopo la sentenza, quasi a ridefinire (se mai ce ne fosse ancora bisogno) il sistema di connivenze e complicità in grado di proteggere i personaggi più oscuri di questo paese. Un mandato di cattura europeo riesce a porre fine alla tentata latitanza. Silvio Tramonte viene arrestato a Fatima, in Portogallo. Ora è finita, per davvero.
Una sentenza voluta tenacemente dalla Procura di Brescia. Un verdetto sognato da quell’uomo, con i capelli bianchi e gli occhi azzurri ghiaccio. Perché niente sarà come prima. Nessuno riavvolgerà il nastro. Ma forse tutti hanno guadagnato qualcosa. “La Verità giudiziaria”.
Quella storica la scoprimmo il 28 maggio 1974. Con le mani sporche di sangue. In quella piazza maestosa, di colpo impotente. Ma 43 anni dopo: Brescia Resistente.
Siamo felici e ed arrabbiati allo stesso tempo.
Comunque, “tritone” è stato triturato e vediamo se il Giappone restituirà Zorzi.
Quanto ancora dovremo aspettare….
Finalmente?
I nomi? Mai. Siedono in parlamento!