La crisi economica, che ha colpito duramente il nostro Paese negli ultimi dieci anni, ha ridotto milioni di famiglie ben al di sotto della soglia di povertà. Diversi partiti politici, nella loro campagna elettorale, sostengono fortemente, come soluzione al problema, l’istituzione di un reddito di cittadinanza, un reddito minimo garantito o gli ormai classici ottanta euro, che garantirebbero alle famiglie italiane quanto basta per acquistare i beni di prima necessità.
Tuttavia, tra i problemi che sfuggono alla loro miopia, vi è la malattia in stato avanzato che attanaglia il nostro sistema alimentare, di cui vi avevamo già parlato.
Circa 3 milioni di persone non possono permettersi pasti a base di carne o pesce almeno una volta ogni due giorni; 2,2 milioni di persone non hanno soldi a sufficienza per mangiare con costanza durante l’anno. Gli affamati sono cresciuti, negli ultimi dieci anni, del 57%. Molti tra costoro, cercando di contenere i costi e non ridurre la qualità, hanno dovuto ingegnarsi, inserendo, nel loro carrello della spesa, più cibi a chilometri zero.
Vi sono dei benefici: secondo un’analisi della Coldiretti, l’acquisto di prodotti locali taglia del 60% lo spreco alimentare (che si aggira intorno ai 8,5 miliardi di euro, pari allo 0,6% del PIL) rispetto ai sistemi alimentari tradizionali. Inoltre, lo sperpero scende dal 40-60% per la grande distribuzione alimentare ad appena il 15-25% per gli acquisti diretti dal produttore agricolo, perché “i cibi in vendita sono più freschi, durano di più e non devono percorrere lunghe distanze con le emissioni in atmosfera dovute alla combustione di benzina e gasolio”.
Sembrerebbe che gli Italiani siano riusciti, ancora una volta, a fare di necessità virtù. Tuttavia, ci sta pensando l’Unione Europea a frenare l’entusiasmo: la stessa Coldiretti ha aspramente denunciato la volontà di Bruxelles di offrire un accesso al mercato comunitario di 99mila tonnellate, a dazio zero, di carni bovine provenienti dai Paesi sudamericani, nell’ambito del negoziati sul Mercosur. Si tratta di prodotti che non rispettano gli standard produttivi e di tracciabilità, che metterebbero, a livello concorrenziale, in seria difficoltà i nostri allevatori. Esattamente la direzione opposta a quella virtuosa che abbiamo appena iniziato a percorrere.
Non solo: il CETA, l’accordo di libero scambio tra UE e Canada, è stato il canale di apertura per una futura massiccia imitazione dei nostri prodotti tipici da parte di imperi industriali come Cina, Giappone e USA. L’UE ha intenzione di tutelare solo il 10% dei fiori all’occhiello dell’alimentazione italiana, mentre i restanti dovranno concorrere con dei prodotti di minore qualità, ma a costi nettamente inferiori e presenti in quantità immense. Ancora una volta, a pagare le conseguenze di questi scellerati liberismi saremo noi produttori, venditori e consumatori.
Risultato: maggiori sprechi, povertà alimentare, disoccupazione e inquinamento.
Di questo, e di molto altro, dovranno renderci conto chi oggi propone mance mensili e domani guiderà questo Paese, rappresentandolo proprio nelle sedi dell’UE.