Una figurina. Conoscete la collezione Calciatori, popolare serie di album di figurine, creata nel 1960 dalla Panini? Si, quella del “ce l’ho” e del “mi manca”, pronunciati dai più piccoli fuori da scuola. Quell’album, per me, era un appuntamento fisso, come la calza della befana ricca di bustine di figurine il sei gennaio di ogni anno. Weah, Ronaldo, Del Piero, Baggio. Speravi sempre di trovare il tuo idolo. “Cosa c’entra tutto questo?” direte voi. Provate a fare uno sforzo d’immaginazione. Prendete il volto e il corpo di Sacko Soumayla e vestitelo di rossonero, di neroazzurro o di bianconero. Fatelo diventare un calciatore della nostra squadra del cuore. Dategli un simpatico appellativo. Create un coro in suo onore, come sanno fare i veri ultras. Immaginatevelo calcare i prati dei più grandi stadi d’Italia. Perché Sacko è veramente bravo con i piedi e merita rispetto e gratitudine.
Invece no. Niente di tutto ciò. Questo ragazzo di ventinove anni dal viso gentile è soltanto l’ennesimo negro di questo paese che non vuole più negri. Sacko Soumayla è soltanto l’ennesimo negro che in terre del sud decide di sopravvivere raccogliendo pomodori per pochi euro al giorno. Questo maliano, regolarmente in Italia dal 2010, è soltanto l’ennesimo negro che vive nella tendopoli di San Ferdinando. È un attivista del sindacato dell’Usb, da sempre in prima linea nelle lotte sindacali per difendere i diritti dei braccianti agricoli sfruttati nella Piana di Gioia Tauro. Anzi, era un attivista sindacale. Fino a due giorni fa. Quando dei colpi di fucile a pallettoni esplosi da un assassino razzista hanno centrato alla testa quel “migrante economico”, come lo chiamerebbe qualcuno.
Un film già visto. Questa volta con proiettili veri. Non molto distante nel tempo la famosa “rivolta di Rosarno”, nata dopo alcuni colpi di fucile caricati a pallini sparati contro tre nordafricani, e culminata con la deportazione di massa dei diseredati del mondo che avevano subito il vile attentato intimidatorio. Oggi ci risiamo. Con un morto e due feriti. Colpevoli di avere la pelle nera e spaccarsi la schiena dodici ore al giorno nei campi che odorano di schiavismo legalizzato.
“Finita la pacchia!”, urla il neo Ministro degli Interni Matteo Salvini. Come se morire nei campi o annegati in mare fosse espressione di una situazione straordinariamente vantaggiosa sul piano materiale. Si sono indignati in tanti, ma non molti. Perché una parte consistente del nostro paese è davvero convinta che il problema siano gli immigrati, siano i negri. Nella Calabria, terra di ‘ndrangheta, anziché combattere la violenza e il sopruso mafioso, si gioca alla “caccia del negro”. Molto più interessante e divertente. Molto meno faticoso del mettersi in gioco nella difesa della propria terra contro parassiti criminali che dominano incontrastati da più di un secolo.
Eccoci qui, dunque. Mettiamoci a nudo. Noi che idolatriamo il nero che sa usare bene i piedi e denigriamo il negro che viene sfruttato e che lotta per ottenere diritti. Noi che adoriamo il nero ricco e bruceremmo come sterpaglia il clandestino povero che arriva a nuoto, armato di speranza. Noi che amiamo la nostra tradizione cristiana e cattolica, trasgredendo quotidianamente le parole del nostro profeta. Noi che “tornatevene a casa vostra, negri di merda!”, salvo poi venerare il calciatore, regolarizzare le badanti e sfruttare i migranti nei cantieri e nei campi.
Altro che il silenzio del nuovo governo. A me ritorna in mente come un fulmine a ciel sereno la frase pronunciata da Salvini alla trasmissione La Zanzara: “Migranti? Se divento ministro dell’Interno, li faccio scaricare sulle spiagge africane con una bella pacca sulla spalla, un pacchetto di noccioline e un gelato”.
La storia si ripete e sa essere impetuosa. Non arrendiamoci. Indigniamoci. Perché anche le minoranze hanno fatto la storia.
Lo dobbiamo a Sacko. Lo dobbiamo a Rosa Parks. Lo dobbiamo a noi stessi.
“Restiamo Umani”.