Non che ce ne fosse bisogno, ma il confronto televisivo tra Matteo Renzi e Matteo Salvini ha dimostrato una volta di più che i due leader sono figli dello stesso milieu culturale degli anni ’80. Quello che, per intenderci, nacque per colpa di un certo modo di fare politica che sfociò ben presto in affarismo e portò all’estinzione della Prima Repubblica per un’overdose di tangenti. I due Mattei hanno fondato le proprie fortune politiche finendo per cavalcare il miglior cavallo che si può cavalcare, quello che va contro “il sistema”.
Peccato che loro, biografie alla mano, parte del sistema sono da sempre. Entrambi sono politici puri, eppure hanno fondato la loro carriera politica contro chi di mestiere faceva solo il politico, contribuendo a svilire e a svuotare la carica pubblica e ad aprire un’autostrada ai grillini in larga parte della società civile, soprattutto a sinistra (alimentando l’illusione che per fare un buon politico è sufficiente che “sia onesto”. Quella, semmai, è una pre-condizione).
Nell’Italia dalla memoria corta, tra i redivivi tifosi di Renzi forse c’è chi si è dimenticato la bulimica voglia di potere del giglio magico quando albergava a Palazzo Chigi, con tanto di diktat nei confronti dei direttori di telegiornali scomodi e poi di direttori generali che non avevano efficientemente eseguito gli ordini e ritenuti responsabili della sonora sconfitta al referendum. Giusto per fare un esempio.
Ma quello che accomuna i due è lo stile: delegittimazione continua dell’avversario, battute per evitare le domande scomode, gogna social sfruttando una vasta rete di finti account gestiti da fedelissimi (che poi non erano nemmeno questi grandi maghi del web). Tra la bestia di Salvini e quella di Renzi la differenza è minima, basta farsi un giro su Twitter e Facebook. All’esasperazione dei toni poi arriva puntuale la propria vittimizzazione pubblica per via degli epiteti poco lusinghieri che giungono da poco organizzati cittadini o dalla tifoseria avversaria, che però si dice sempre di affrontare “col sorriso” o a cui si risponde “coi bacioni” (salvo scatenare la gogna social un secondo dopo).
Fake news contro gli avversari e addirittura arruolamento postumo dei defunti, come Enrico Berlinguer, tirato in ballo nella campagna pro-referendum insieme a Nilde Iotti, per quanto riguarda Renzi, e recentemente tirato in ballo da Salvini nelle regionali in Umbria, per fare un impietoso confronto tra la Sinistra di ieri e quella di oggi. Come se l’abbassamento qualitativo del personale politico non ci fosse stato anche a destra, dove si è passati da democristiani come Andreotti e fascisti come Almirante, a Berlusconi e Bossi prima e Salvini e la Meloni oggi.
Tuttavia, Renzi e Salvini sono appunto semplicemente l’espressione più evidente di quel lungo processo di imbarbarimento della politica perfettamente descritto da Norberto Bobbio in un articolo pubblicato il 16 maggio 1984 sulla Stampa, dove stigmatizzava l’elezione congressuale di Bettino Craxi a Segretario generale del PSI per “acclamazione”, denunciandone il significato personalistico e autoritario, che sembrava reintrodurre sulla scena italiana il culto del “capo carismatico” e nel partito la pratica proprietaria del “padrone” al di sopra delle regole. Bobbio metteva in guardia dai rischi di una politica personalistica e spettacolare, che avrebbe finito per svuotare di significato la vita democratica dei partiti e in particolare scriveva:
“L’elezione per acclamazione non è democratica, è la più radicale antitesi dell’elezione democratica. È la maniera, che dopo Max Weber non dovrebbe avere più segreti, con cui i seguaci legittimano il capo carismatico; un capo che proprio per essere eletto per acclamazione non è responsabile davanti ai suoi elettori. L’acclamazione, in altre parole, non è un’elezione, è un’investitura. Il capo che ha ricevuto un’investitura, nel momento stesso che la riceve, è svincolato da ogni mandato e risponde soltanto di fronte a se stesso e alla sua emissione. Possibile che il congresso che ha compiuto un tale atto, e l’onorevole Craxi che l’ha accettato, non si siano resi conto dell’errore madornale che stavano compiendo, soprattutto nel momento in cui il partito socialista e il presidente del Consiglio che lo rappresenta sono accusati, a torto o a ragione, di tendenze autoritarie?”
Fu questo uno dei motivi per cui Bobbio, insieme al meglio della tradizione socialista (Lombardi, Giolitti, Codignola, Enriquez, giusto per fare dei nomi), abbandonò il PSI di Craxi, che nella sua rovina finì per sacrificare l’intera tradizione socialista. Si è visto poi che molto dell’elettorato del leader socialista e numerosi dirigenti che a lui devono la carriera, si sono rifugiati in massa sotto le bandiere di Berlusconi, contribuendo alla nascita di una nuova destra che dal craxismo ha avuto molto da imparare.
La democrazia dell’applauso ha fatto sì che oramai non contino più le idee e gli atti compiuti per realizzarle, perché tra l’altro nella velocità con cui si muove l’informazione e Internet è anche difficile spiegarle, bensì si gioca tutto sull’adesione fideistica al Capo, che non ha mai torto e anche se prende delle batoste elettorali tremende, come nel caso di Matteo Renzi, o politiche, come nel caso di Matteo Salvini ad agosto, resta in sella come se niente fosse, senza che a nessuno dei suoi venga in mente di chiedere e ottenere autocritica.
Uno stile che cozza parecchio con quello di un leader come Enrico Berlinguer, così tanto spesso evocato sui social per dimostrare che “la pensava come me“, ma troppo poco spesso conosciuto e messo in pratica. Ad esempio, a una settimana dalle elezioni politiche del 1979, dove il PCI perse 1,5 milioni di voti (la metà della grande avanzata del ’76) e 4 punti percentuali, fermandosi al 30,4%, il segretario generale del più grande partito comunista d’Occidente arrivò a Palermo, nella sezione Togliatti, nel cui quartiere vi era stato un sensibile calo di voti, e restò in silenzio tutta la sera. Motivo? Era andato ad ascoltare cosa dicevano i militanti e a capire la loro opinione sugli errori che aveva compiuto.
Ecco, quella di ieri sera da Vespa, come in qualsiasi altro salotto televisivo, non è più politica: è cabaret. Qualcosa che sarebbe anche divertente, se non fosse che nel mentre ci sono milioni di persone che soffrono, nell’indifferenza di chi avrebbe il potere di fermare il degrado politico e culturale che caratterizza oramai la nostra epoca. Quando si torna a fare Politica, quella vera, quella con la P maiuscola?
Soprattutto, quand’è che la Sinistra torna a fare la Sinistra?