L’Emilia-Romagna non è caduta nelle mani di Lucia Borgonzoni, la miglior candidata non protagonista (cit. Lercio): non sapremo mai se sia più per merito dell’iper-presenzialismo del suo leader che l’ha oscurata (prima causa del maschilismo di cui si dice vittima) o se per le sue continue gaffe in campagna elettorale, che ne hanno palesemente dimostrato l’inadeguatezza politica.
Sia come sia, l’Emilia-Romagna è la metafora di come il Partito Democratico può fare tutto, tranne che assolvere se stesso e pensare che, portato a casa questo risultato, ora si possa dormire sugli allori e limitarsi a qualche frase di circostanza sul dover “cambiare tutto” o sul “partito nuovo“. Se fino all’ultimo una regione simbolo della buona amministrazione della tradizione comunista, investita persino da Palmiro Togliatti nel 1946 nel famoso discorso su “Ceti medi ed Emilia Rossa” di un ruolo di modello nazionale a cui ispirarsi, ha rischiato di finire nelle mani di Salvini e compagnia, è evidente che non ci si può limitare ai ritocchini di facciata.
“L’Emilia è rossa, la faremo bianca“, diceva un giovanissimo Dario Franceschini, nelle memorie dei suoi compagni del liceo. Il bianco, o meglio la Balena Bianca, cui si riferiva lui non c’è più ma lo spostamento al centro, e quindi a destra, c’è stato eccome.
La cartina politica dell’evoluzione del voto vale molto più di mille parole per dimostrare quanto sia stato deleterio questo processo: Vasco Errani nel 2005, da esponente dei Democratici di Sinistra, veniva riconfermato governatore con 1.579.989 (la coalizione ne prendeva 1.414.717), pari a oltre il 62% e il suo avversario Carlo Monaco si fermava a 886.775 voti, pari al 35,21%, con un’affluenza del 76,67%; nel 2010 già perdeva consensi e calava l’affluenza (68,07 %), con un dato personale che si attestava al 1.197.789, pari al 52,07%, sempre più comunque della coalizione che prendeva circa 100mila voti meno, mentre Anna Maria Bernini che lo sfidava si fermò a 844mila voti pari al 36,73%.
Quindi, già il passaggio da Democratici di Sinistra a Partito Democratico portò a una diminuzione dell’affluenza e a un calo sensibile di voti (400mila), che se ci fosse stato ai tempi del Partito Comunista Italiano avrebbe portato l’allora dirigenza a ripensare molto della linea politica. Erano del resto gli anni in cui ci si vergognava di chiamare le Feste de l’Unità con quel nome (almeno a livello nazionale, in Emilia-Romagna lo mantennero), Bersani da leader guardava con sospetto le Sardine dell’epoca (ve lo ricordate il Popolo Viola?) e la questione morale già dal 2007 funestava i DS, con le famose intercettazioni “abbiamo una banca?“, che spalancarono le porte all’odiato Veltroni alla segreteria del nascente PD (il quale, complice anche i suoi errori, fu fatto fuori dopo poco più di un anno da chi creava le condizioni per l’ascesa di Renzi, leggi D’Alema & co).
Nel 2014, in piena sbornia renziana, con la teorizzazione del “partito della nazione” e del definitivo sdoganamento del superamento ideologico dell’asse destra e sinistra si compie il disastro perfetto, complici anche le dimissioni anticipate di Errani per i suoi guai giudiziari (per i quali verrà assolto): l’affluenza si ferma al 37,71%, mai così bassa, e Bonaccini diventa Presidente contro Alan Fabbri (attuale sindaco leghista di Ferrara), ma con appena 615.723, pari al 49,03%, mentre il PD si ferma a 535.109 voti (44,53%).
Alle regionali del 1985, quelle che ricorrevano a quasi un anno della morte di Enrico Berlinguer, il PCI definito “in crisi” per via del craxismo che galoppava a suon di tangenti e affaristi otteneva il 47,04% con 1.382.913 voti: fa ridere che allora si parlasse di crisi, dato che 10 anni prima, ai tempi della grande avanzata in tutta italia, culminata col risultato nazionale del 34,4% del 1976, in termini di voti assoluti aveva preso persino 20mila voti meno, pari a 1.363.477.
Numeri fantascientifici rispetto alle ultime elezioni regionali, dove si è evitato il peggio solo grazie all’elettroshock generato dalle Sardine, che possono stare simpatiche o meno, al voto disgiunto e all’inequivocabile inadeguatezza della candidata leghista: la prospettiva di finire in quelle mani ha mobilitato anche chi non era andato a votare per evitare il peggio.
Il governatore riconfermato vince quindi con 1.195.742, pari al 51,42%, facendo tornare il centrosinistra ai livelli del 2010 (col PD che aumenta i voti a 749.976, che in percentuale però si riducono al 34,69% per effetto della maggiore affluenza rispetto al 2014). Il problema, come si nota nella mappa del voto di YouTrend, è che la Borgonzoni si ferma al 43,63% con un milione di voti circa, ma vince in 4 province su 9 e la Lega arriva al 31,95% con 690.864 voti: alle già citate elezioni del 1985 la DC ne aveva presi 722mila. Bonaccini insomma vince grazie al voto disgiunto e al ritorno al voto di una parte degli astenuti (al 32%), che in parte nel 2018 avevano votato M5S.
Poi, per carità, contano i simboli: al Pilastro, il quartiere di Bologna teatro della buffonata del citofono, Salvini prende una sventola tanto quanto a Bibbiano, mentre la più votata con oltre 22mila preferenze è Elly Schlein, vera stella di questa tornata elettorale, passata alla ribalta delle cronache per aver messo in fuga il leader leghista con una semplice domanda circa le sue assenze sulla riforma del regolamento di Dublino quando era parlamentare europeo e suo collega. La sua lista civica, Coraggiosa, porta a casa il 3,8% e due consiglieri.
Il punto è che l’Emilia-Romagna sta diventando sempre meno rossa perché il Partito è sempre meno rosso, non avendo più in mente un’idea organica di società, dato che per anni si è pensato che bastasse arroccarsi sulle rendite di posizione per andare avanti: le citazioni a metà di Edmondo Berselli fatte in campagna elettorale sul modello emiliano dimenticavano sempre la parte successiva, cioè che nulla è dato per sempre.
A questo giro è andata bene, ma, come già detto in occasione del 30° anniversario della Svolta della Bolognina, “una Sinistra che vuole avere un futuro dovrebbe anzitutto recuperare e difendere la memoria di quello che è stata e che ha rappresentato, usando in maniera seria e intelligente le nuove forme di comunicazione, senza scimmiottare Salvini. Oggi più che mai serve, prima ancora di un partito, una cultura della Sinistra aperta e moderna, che si liberi di quella mentalità ottusa da trinariciuti di partito e ricostruisca l’alfabeto ideale con cui rispondere a quel bisogno di sete e di giustizia che è maggioritario tra quello che era il suo vecchio popolo e che ora o non vota o vota a destra, perché la Sinistra viene percepita come “casta” a difesa dei “poteri forti”.“
Alfredo Reichlin, nel 2011, disse: “Noi, di questo casino italiano, non siamo innocenti“, riferendosi alla sua generazione e a quella immediatamente successiva, che aveva gestito il passaggio da PCI a PDS. Sarebbe il caso di ripartire da questa ammissione di colpa, se fra 5 anni non vogliamo svegliarci con l’Emilia in mano leghista.