Primo Maggio. Festa dei lavoratori.
Ogni anno ci troviamo a dover fare i conti con il numero di morti sul lavoro, un numero ogni anno drammaticamente alto. A cui va aggiunto il numero di morti in itinere, ovvero di coloro che sono morti per strada, mentre raggiungevano il posto di lavoro.
Migliaia di vite ogni anno. Vite spezzate, che una mattina escono dalla porta di casa, e non vi fanno più ritorno.
E ogni anno la situazione non cambia. Ogni anno ci ritroviamo in questo giorno a fare la conta di chi non c’è più, perché vittima di un sistema malato.
Non sono morti a causa di fatalità. Abbiamo il dovere di rendere giustizia a ciascuno di loro. E per farlo dobbiamo dare un nome a ciò che li ha uccisi. Il primo modo di rendergli giustizia è esattamente dire che sono stati uccisi. E il loro carnefice ha un nome ben preciso: il profitto.
Il profitto però non uccide da solo. Indossa maschere. Maschere fatte di sorrisi, di strette di mano. Ma che sotto nascondono il ricatto.
Viviamo in un’epoca in cui il progresso tecnologico ha fatto passi da gigante. In cui potremmo lavorare tutti meno, guadagnando di più. La concentrazione dei mezzi di produzione nelle mani di pochi, lungi dal liberare le energie produttive, verso uno sviluppo più libero dell’esistenza umana, fatto di affetti, relazioni sociali e tempo libero, ha portato solo ad una maggiore precarizzazione del lavoro.
Paradossalmente, siamo ricattabili quanto e più di prima. La libertà di cui godiamo oggi nel mondo del lavoro è, per tanti, per ancora troppi, libertà di scegliere tra lavorare in condizioni insicure, in nero, senza tutela, o morire di fame.
Le disuguaglianze sociali sono tornate ai livelli delle società ottocentesche. Questo non è un caso. Questa non è la migliore società possibile. Anche se vogliono farcelo credere, perché oltre alle merci, ci vendono anche i bisogni: il bisogno di lavorare fino allo stremo, di produrre e di consumare lo spreco.
“Ogni liberazione dipende dalla coscienza della schiavitù”, diceva Marcuse. E allora è ora di rivedere l’organizzazione del lavoro. È ora di ricordare che la lotta di classe non è finita.
Perché se è vero che l’uomo e il mercato sono influenzati dalle circostanze, allora bisogna formare le circostanze umanamente. Perché non è accettabile una società in cui il profitto e il capitale vengano prima delle persone.
È ora di spezzare le catene. Per una società più giusta. Per un lavoro dignitoso.
Perché il socialismo è inevitabile. E noi combatteremo giorno per giorno per renderlo possibile.
Non dimentichiamolo mai, compagne e compagni.