Le settimane appena passate hanno avuto al centro dell’agenda politica interna la discussione del ddl Gelmini, concernente l’assetto delle università. E’ la tanto declamata riforma del Miur volta sostanzialmente ad abbattere i baronati e rendere le università italiane al passo dei concorrenti europei, basando la redistribuzione dei fondi sul merito. La questione ha avuto un enorme risalto nelle cronache dei giornali anche per via delle contestazioni in tutta Italia, con studenti e manifestanti che hanno occupato stazioni ferroviarie, svincoli autostradali, facoltà e licei.
Il dato politico che emerge dalla discussione di questa riforma è che la componente di Futuro e Libertà e le opposizioni, in vista della giornata decisiva per le sorti del governo del 14 dicembre, hanno ripetutamente mandato “sotto” il governo votando emendamenti che non vedevano d’accordo i banchi del governo, dopo che già il Senato aveva approvato il testo finale. Ora la legge dovrà tornare a Palazzo Madama, ma non prima del voto di fiducia: è notizia odierna che la conferenza dei capigruppo ha visto le opposizioni spuntarla sul calendarizzare il voto del ddl dopo la votazione di sfiducia.
Nel merito, è una riforma abbastanza zoppa. In primo luogo lo è perché il contesto di approvazione finale è di alta instabilità politica, che appunto ha visto l’ex componente dell’Esecutivo di Fli “mostrare i pugni” ai banchi del Governo. Inoltre, raccoglie pareri discordanti negli stessi ambienti universitari. In secondo luogo molti obiettivi non sono coerenti con lo stato attuale degli Atenei, nonché dei mezzi necessari per affrontare la riforma.
Un’importante parola d’ordine di questa riforma è la valutazione, che avrà il compito di erogare fondi in base all’efficienza e l’efficacia della didattica dei singoli atenei, della qualità della ricerca. Terrà anche conto dell’inserimento nel mondo del lavoro dei laureati, nonché la qualità generale dei servizi (come capacità di reperimento di risorse e offerta formativa). In questo modo il 7% circa del Fondo di Finanziamento Ordinario verrà distribuito in base a queste valutazioni, che premierà le università più virtuose. La restante parte verrà assegnata secondo i criteri già in vigore. Compito dell’ANVUR (Agenzia Nazionale per la Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca, già istituito dal Governo Prodi II) sarà quello di stabilire quanto di questo 7% spetti a ogni singola università in base ai criteri già citati. La perplessità che sorge a riguardo è che allo stato attuale l’ANVUR non è operativo in quanto non è ancora costituito il Consiglio Direttivo e sul sito ufficiale sono presenti unicamente i criteri e i moduli per la presentazione delle candidature per lo stesso organigramma. In assenza di criteri definiti sarà quindi molto difficoltoso capire come possano essere valutati coerentemente questi parametri.
Cambia anche il ruolo del ricercatore nel sistema università: attualmente il ricercatore è di fatto un professore che fa didattica pur non essendo prevista per legge, a contratto a tempo indeterminato, con uno stipendio che può arrivare a un quarto di quello di un docente ordinario. In molti casi un ricercatore rimane in queste condizioni a vita. La riforma intende ridare al ruolo del ricercatore la sua mansione naturale, cioè la ricerca, normando la possibilità di fare carriera, evitando così di perpetuare una classe di ricercatori vita natural durante. Per giungere a questo scopo, il testo prevede che il ricercatore abbia contratti esclusivamente a tempo determinato secondo due tipologie: il contratto di durata triennale rinnovabile per due anni una sola volta, previa valutazione svolta (non viene riportato a chi spetta quest’onere) e il contratto di durata triennale non rinnovabile, riservato ai fruitori della prima tipologia. In pratica, il ricercatore che ottiene la proroga del primo contratto può arrivare ad assommare 8 anni di “precariato”. Alla fine di questo percorso, l’università deve valutare l’attività del ricercatore e, se positiva, può assumere il ruolo di professore aggregato con contratto a tempo indeterminato, previa disponibilità. Se invece la valutazione è negativa, il ricercatore perde ogni tipo di relazione con il mondo accademico. In questo modo il rischio concreto è che il ricercatore, non avendo possibilità di carriera certa e definita, né regole chiare per valutare il suo futuro, sceglie di andare all’estero o seguire altre strade professionali distanti dall’università, correndo il rischio di perdere importanti pezzi di classe dirigente del paese. Nondimeno, non si capiscono i criteri con cui i ricercatori possono entrare in ruolo negli atenei. In assenza di trasparenza, non si capisce come possa essere efficace la lotta ai “baroni”, slogan portato avanti dalla Gelmini come di leit-motiv della riforma.
Questi due aspetti mettono in luce una riforma contraddittoria, che non specifica né la valutazione né il ruolo del ricercatore, senza contare che non è ancora resa nota l’entità dell’FFO del 2010. Ci si domanda quindi come sarà possibile implementare una riforma incompleta, piena di rimandi governativi, con una votazione di sfiducia in mezzo alla navetta parlamentare. Quello che se ne deduce quindi è che una riforma importante come questa, è per sua genesi zoppa, e non si capisce come possa riorganizzare, in termini di efficienza, l’assetto dei nostri atenei.