Ci risiamo. Ecco che si presenta finalmente l’ennesima occasione per scalzare Mr B da quella poltrona alla quale si è eccessivamente affezionato in questi ultimi 15 anni. L’unico problema che si pone in momenti come questi è su chi mandare a Palazzo Chigi. Già, perché se da una parte è evidente l’incapacità, l’inettitudine, la dannosità di un personaggio come Berlusconi alla guida di un paese, dall’altra bisogna scervellarsi per trovare una valida alternativa di governo da votare, possibilmente evitando di “turarsi il naso”. I fallimenti della quarta candidatura berlusconiana sono stati ultimamente evidenziati da uno dei suoi più fedeli seguaci, Giuliano Ferrara, che nel suo “Il Foglio” ha voluto declamare la malapolitica di cui si è resa protagonista la coalizione di governo. D’altronde, un partito che deve la sua forza non alle idee, alla sua tradizione o ai suoi ideali, bensì alla capacità mediatica del suo leader, che basa le sue campagne elettorali su promesse e dichiarazione di amore, non può candidarsi come soggetto in grado di governare un paese. Se a questo poi aggiungiamo la profonda motivazione dell’esistenza di un partito cui fa capo Silvio Berlusconi, si arriva a capire la follia tutta italiana di aver tenuto per tre lustri un simile personaggio a capo di un governo. Come infatti aveva affermato più volte Enzo Biagi, riportando fedelmente le parole del premier, Berlusconi era giunto a candidarsi alle politiche del 1994 con la sola motivazione di trovare escamotage che gli permettessero di evitare la galera.
Bisogna evidenziare come, però, tutto questo sia stato possibile grazie all’indifferenza, se non addirittura al consenso manifestato, di volta in volta, di legge in legge, di porcata in porcata, dalla fazione opposta al centrodestra. Giusto per citare un paio di casi, si può ricordare come durante il governo D’Alema, nel 1999, l’esecutivo riuscì a mettere mano in due diverse situazioni, che favorirono entrambe l’operato del premier. La prima fu un’ “abilitazione provvisoria” a Rete 4, che permise di trasmettere il canale Mediaset, nonostante la Legge Maccanico del 1997 (ministro delle Poste e delle comunicazioni del primo governo Prodi, che aveva a sua volta concesso una proroga al canale) la quale impediva la trasmissione della Rete se non dal satellite. La seconda, sempre nello stesso anno, (1999) concesse a Berlusconi e Previti, imputati per corruzione dei giudici romani nei processi Mondadori, Imi-Sir e Sme-Ariosto, di liberarsi del gip Rossato che aveva firmato gli arresti di due magistrati corrotti e di due avvocati della Fininvest, oltre che dello stesso Previti, il quale non fu arrestato per volere della Camera, a maggioranza Ulivo. L’on. Guido Calvi, legale di D’Alema, propose quindi una legge, approvata dal centrosinistra, che impediva al gip di proseguire nell’ indagine, dovendo passare le carte ad un collega, che, non conoscendole, avrebbe perso un sacco di tempo, permettendo il rinvio a giudizio degli imputati. Questi sono solo due dei peccati originali del centrosinistra, che tutt’oggi sbraita pubblicamente contro un soggetto che loro stessi hanno contribuito a creare, o perlomeno, a salvare.
In questa situazione, nel caso in cui si andrà alle elezioni, come già auspicato dal Senatùr, ci sarà, per l’ennesima volta il dilemma della scelta del male minore. Se da una parte è palese l’assoluta follia di un voto ad un governo non dico di destra, ma presieduto da Berlusconi (che sono due cose ben diverse), si pone una questione che contrappone la volontà di liberarsi di un dannoso male della Repubblica Italiana alla triste consapevolezza di un’alternativa debole, falsa, incapace di creare solide proposte e di prendere posizione. Ultima impagabile gaffe del presidente Bersani è stata l’apertura al terzo polo di Fini, Casini, Rutelli & co., che, se da un punto di vista politico potrebbe avere un minimo significato (la nuova coalizione mirerebbe a prendere voti da tutte le direzioni, sia sinistra, sia centro, che destra) dall’altro getta nello sconforto il povero, eticamente corretto e fiducioso elettore, che palpitava sulla sedia, credendo giunto il momento favorevole per una vera coalizione di sinistra (Sel e Idv con il Pd, come avevano proposto sia Vendola che Di Pietro). Invece ci troviamo ad assistere all’ennesimo scivolone del più grande partito di opposizione, che nella sua indefinibilità e ambiguità, ha ricevuto un deciso no sia dal terzo polo che dall’elettore, il quale, proprio in un momento come questo, stava già aspettando un segno in grado di convincerlo a fare la scelta più giusta.