Il nostro obiettivo è quello di garantire uno sviluppo socialmente ed ecologicamente sostenibile.
(Maurizio Landini, segretario generale della FIOM, Roma, 9 Marzo 2012)
Siamo in un periodo critico, Edward Osborne Wilson nel libro The Future of Life lo definisce molto efficacemente bottleneck, il collo di bottiglia. Il nostro futuro dipende dalle decisioni che prendiamo oggi, a livello governativo, economico e scientifico. Secondo l’ONU a oggi 1.3 miliardi di persone non hanno accesso all’energia elettrica: immaginate per un attimo la vostra vita senza corrente alternata, pensate alla luce di notte, alle celle frigorifere, agli ospedali. Garantire a tutti risorse fondamentali non significa per forza renderle gratuite, significa renderle fruibili a basso costo, diversificare le fonti e migliorare l’efficienza energetica di cui disponiamo oggi.
Beppe Grillo (Tutto il grillo che conta, Feltrinelli, 2006) conosce un falegname svizzero che con la luce del sole fa l’idrogeno e uno svedese (tale Olof Tengstrom) che fa altrettanto con un mulino a vento. L’idrogeno è un vettore energetico straordinario (sono vettori energetici anche il metano e il GPL, cioè tutto ciò che può immagazzinare energia finché non viene utilizzata) e Grillo è convinto che qualcuno ce l’abbia nel cassetto e non glielo voglia dare. Cito: Se possono farcela degli artigiani, perché non può farcela anche l’industria? Che sia perché il sole e il vento non si vendono e il petrolio sì?
L’idrogeno molecolare, a differenza, ad esempio, del metano, sul nostro pianeta praticamente non esiste, lo si deve produrre e per farlo ci sono due modi: l’elettrolisi e il reforming del petrolio. Ce n’è anche un terzo, di tipo biologico, ma ancora in fase di studio: la Chlamydomonas reinhardtii (un’alga) in determinate condizioni è in grado di passare dalla produzione di ossigeno alla produzione di idrogeno (Prof. Anastasios Melis, UC Berkeley).
Al momento sono purtroppo tutte modalità troppo costose e troppo poco produttive, specialmente se accoppiate alle energie rinnovabili, inoltre immagazzinare idrogeno significa usare serbatoi enormi ed è quindi difficile combinarne efficienza e capacità di stoccaggio con l’autonomia e le dimensioni medie di un’automobile. Infine forse Grillo non sapeva (e dal suo blog mi pare non sappia ancora) una cosa: l’idrogeno prodotto dall’industria petrolchimica viene usato sia nei processi chimici sia come vettore, rendendo energeticamente autonoma la lavorazione del petrolio. E questo avviene da decine di anni, oltre a rappresentare attualmente il più ampio impiego dell’idrogeno.
Un’altra piccola curiosità che non tutti conoscono: dal 2% dell’odiato petrolio si ricavano solventi, materie plastiche, farmaci, il 98% viene bruciato. Questo è secondo me l’unico e vero motivo per cui è fondamentale preservarlo, diminuendone drasticamente l’uso come combustibile.
La sfida dei carburanti oggi parla molte lingue, a partire dal brasiliano: l’etanolo da canna da zucchero, grazie alle politiche fortemente interventiste e, bisogna dirlo, di matrice dittatoriale degli anni ’70, non è solo utilizzabile su larga scala, ma ha raggiunto finalmente un prezzo competitivo rispetto al petrolio (José Goldemberg, Ethanol for a sustainable energy future). Lufthansa a Luglio 2011 ha iniziato un esperimento di 6 mesi su 1200 voli utilizzando come carburante kerosene biosintetico, KLM da settembre 2011 fa volare 200 aerei a biokerosene nella tratta Amsterdam-Parigi, ma le critiche fondate o meno sono anche qui sempre dietro l’angolo: che succede se per farci volare puliti si sfruttano all’inverosimile i terreni e gli agricoltori del terzo mondo? Anche per questo Solvay si è mossa per rendere disponibili al più presto aeroplani ad energia solare.
Jeffrey D. Sachs direttore dell’Earth Institute alla Columbia University ha indicato in un editoriale apparso su Science due modi per superare il bottleneck. Io li riassumo così, brutalmente: ucciderci tutti tra di noi in modo che ci siano meno bocche da sfamare o avere governi che spendano i soldi dei cittadini per i cittadini. La spesa militare del 2009 degli Stati Uniti è stata di oltre 660 miliardi di dollari, quella italiana ha superato i 37 miliardi (Stockholm International Peace Research Institute).
Secondo il Dr. Nicholas Jordan et altri una sperimentazione su larga scala di agricoltura bio-economica basata su colture perenni multifunzionali (si tratta, brevemente, di colture che non devono essere ripiantate ogni anno e forniscono materiale utile sia all’alimentazione sia per la produzione di biomasse con notevoli e dimostrati benefici economici e ambientali) costerebbe al governo americano 20 milioni di dollari all’anno, lo 0.003% delle spese militari del 2009. E in Italia?
La strada della rinascita della chimica passa per due città, Porto Marghera (VE) e Porto Torres (SS). Per il polo del veneziano dopo gli accordi saltati con Ramco e Gita, dopo più di due anni di cassa integrazione, promesse di riqualificazione degli impianti mai mantenute, dopo l’allontanamento della chimica pesante e l’abbandono del ciclo del cloro, sembra che, finalmente, ad aprile di quest’anno verrà riaperta almeno la raffineria. Staremo a vedere (ancora), ma di fiducia nei confronti del comune e della regione tra i cassintegrati e i licenziati ne è rimasta poca. A Porto Torres per l’ex impianto Vinyls nel 2011 è stato portato sul tavolo delle trattative (o forse è meglio dire delle ipotesi, dei forse, dei be’ vedremo) il rilevamento da parte di Sardinia Green Island per la produzione di energie rinnovabili, con un investimento di 400 milioni in 4 anni: nulla di fatto.
La speranza dei cassintegrati sardi ha adesso il nome e la faccia di Bartolomeo Bonura, imprenditore di Finambiente che vuole usare il poderoso impianto industriale turritano per il riciclaggio di oli e la produzione di biodiesel: l’ultima parola l’avranno il Ministero per lo Sviluppo Economico ed ENI. Resta in ogni caso profondamente radicata l’idea che i tempi di Giulio Natta e del Nobel, della Montecatini e del Moplen per la chimica italiana siano ormai storia antica, morta e sepolta.
A un anno dal disastro giapponese qual è invece il futuro del nucleare? Le centrali termonucleari, va detto, sono meno inquinanti delle centrali a carbone (sono anche di meno: 435 reattori nel mondo contro oltre 7000 impianti a carbone), i rifiuti se stoccati adeguatamente hanno una durata relativamente breve: un rifiuto di tipo A (il 90% circa del totale) esaurisce la radioattività residua dopo 300 anni, si pensi che un sacchetto di plastica resta tale e quale per 500 anni. Il plutonio, che è il rifiuto più pericoloso (tipo C, 0.5% del totale) può teoricamente essere riciclato, ma il processo, che pur viene fatto in alcuni impianti, è pericoloso e antieconomico.
A fronte di questo non si può e non si deve dimenticare che un incidente nucleare ha effetti devastanti e difficilmente calcolabili, sia nell’immediato sia a lungo termine. Fukushima docet: Tepco ha comunicato che i reattori erano progettati per resistere a un terremoto di magnitudo 8.5 della scala Richter (circa 460 gal), quello dell’11 marzo di un anno fa fu di nono grado, il quarto più potente mai registrato sul pianeta. L’incidente nucleare è improbabile, ma comunque possibile.
C’è da chiedersi allora quale sia davvero il nostro problema, se la scelta di risorse, produzioni e fonti energetiche pulite e non invece la ricerca di un realismo sano ed equilibrato, che ci permetta fra l’altro di discernere l’informazione fatta da improvvisati tuttologi dallo studio critico e approfondito. Noi siamo la generazione che deciderà come attraversare il collo di bottiglia. Dobbiamo decidere adesso se vogliamo che i nostri soldi, il nostro lavoro e il nostro tempo vengano spesi per affamare milioni di persone o per uno sviluppo sostenibile.
Chi governa deve decidere se girare il mondo firmando protocolli totalmente inutili o se mettere in campo le risorse, soprattutto economiche, perché i costi energetici possano essere abbattuti, perché sia finanziato lo sviluppo di vecchie e nuove idee, perché si possa andare oltre la chimera un po’ naïf degli ambientalisti modaioli e occasionali di un futuro pulito. Io oggi pretendo di più da me, dal mio lavoro e dal mio governo: pretendo un futuro efficiente, trasparente, creativo ma pragmatico, di tutti e per tutti, in cui ciò che non va più bene non venga messo come polvere sotto il tappeto, ma venga riqualificato, ripensato, riorganizzato.
Voglio un futuro e un mondo del lavoro che siano socialmente e ecologicamente sostenibili.